Ero un bambino quando ho preso in mano per la prima volta una macchina fotografica.
Una "compatta" degli anni '60, la Bencini Comet II. Ricordo l'emozione nel caricare la pellicola ed iniziare a scattare, con parsimonia, perché ogni singolo scatto doveva essere perfetto, ogni scatto costava in pellicola, sviluppo e stampa.
Non provengo, come molti, da una famiglia di "fotografi", ma da una famiglia che ha usato la fotografia per immortalare gli attimi felici e i luoghi meravigliosi che la vita ci mette davanti.
A 12 anni ho provato a scattare con una reflex, una Zenith - E.
Un mondo difficile, oggi si direbbe "tutto manuale". Delle 37-38 foto scattate forse 5 o 6 erano guardabili, ma una era sempre eccellente. La prima svolta in terza liceo, quando per un compito in classe, invece di presentare un disegno, ho presentato due fotografie: l'apprezzamento del compianto prof. Schiemer ha fatto scattare una ulteriore scintilla. L'espressione dell'arte e della bellezza può anche essere una foto. Così ho continuato a scattare e sperimentare. Panorami, arte e architettura all'inizio, tutto quello che non avrebbe mai protestato per una inquadratura... ragazzino timido.
Una Olympus compatta come regalo di laurea nel 1992 (con un bell'obiettivo Carl Zeiss), poi la svolta "nikonista" con una F50 in kit con un 35-80. Poi un 100-300, un 50 fuoco fisso, un 17-35. Era il momento delle pellicole, Fuji nella mia scelta, per una preferenza di colore sulle Kodak. Qualche anno dopo (tanti anni dopo e tantissimi rullini dopo) una prima esplorazione nel mondo digitale, con piccole compatte (una Agfa, una Olympus), fino alla svolta, dopo un viaggio in Bretagna nel 2004.
Una Nikon D70. Nemmeno 6 anni per passare a una D7000. Dietro all'obiettivo però ci sono sempre io, c'è sempre uno studio dell'inquadratura, perché mi sembra ancora di avere una pellicola nella macchina fotografica e pochi soldi nel portafogli.
Ah sì, nel frattempo mi sono diplomato al Liceo Scientifico Galileo Galilei di Trieste, mi sono laureato in Chimica nel 1992, ho lavorato per 22 anni alla Colombin & figlio S.p.A., una azienda produttrice di tappi di sughero come responsabile tecnico e della ricerca e sviluppo, ho girato il mondo per lavoro, conoscendo culture e vini di tutto il mondo e ho scattato, scattato..
Non sono di quelli che girano sempre con la macchina fotografica in mano (o almeno a portata di mano) e nemmeno sono uno scattatore seriale (o almeno non lo ero al principio del digitale, forse perché ancora legato al ricordo della pellicola e dell'investimento che ogni scatto comportava), che cerca di immortalare ogni evento in qualsiasi modo, per poi poterlo manipolare e trasformare in Photoshop per condividere con il resto del mondo la propria visione della realtà. Al contrario in post produzione io cerco di restituire quanto visto con gli occhi, in modo da ridare a chi guarda la foto la stessa emozione di quando ha visto l’evento.
Approfitto delle occasioni per fare fotografie, occasioni che negli ultimi anni si sono concentrate sulla danza, per "colpa" di mia figlia Eleonora.
Eleonora è nata nel 2006 e, mio malgrado, l'ho supportata dal 2010 nella sua scelta di fare danza classica (disciplina inguardabile per me, che ho sempre considerato i grandi ballerini come "personaggi che zompano sul palcoscenico". Però come resistere al fascino di fotografare la danza, di cercare di congelare in uno scatto l'espressione del movimento? Così ci ho provato, a lezioni a porte aperte e saggi, da posizioni improbabili, con risultati tutto sommato dignitosi.
La premessa di base è che a me la danza non è mai piaciuta: non mi piaceva guardarla, non mi ha mai comunicato le giuste emozioni e nemmeno le sensazioni di una attività atletica di eccellenza. Ho una visione personale molto competitiva dello sport, avendo praticato atletica leggera. La preparazione serve per la competizione, che deve essere prima di tutto contro se stessi (o, meglio, contro il cronometro), e poi contro gli altri, che possono anche essere amici, ma in pista invece sono avversari
Essendo mio malgrado entrato in questo mondo di scarpette, body, tutu e chignon, sto cercando di capirne l'essenza, di coglierla e di trasmetterla con le foto. Da quando balla flamenco si è aperto un mondo di colori e di emozioni diverso.
Non so se ci riesco, perlomeno non mi pare di riuscirci come vorrei, ma forse vorrei quello che non si può fare: vorrei trasmettere attraverso le fotografie delle emozioni che non arrivano attraverso la realtà. Se ci riuscissi, farei proprio il contrario di quello che penso sia la fotografia, ovvero la scrittura, attraverso la luce, delle emozioni che la realtà può trasmettere
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